Associazione per il musicista Alberto Franchetti

Un mito laico

Un mito laico

di Luca Zoppelli


Alberto Franchetti aveva quasi trent’anni quando ricevette dal municipio di Genova la commissione per un’opera dedicata – in vista del quadricentenario della “Scoperta” al grande navigatore. Benché fosse anagraficamente prossimo ai componenti della “giovane scuola” – con alcuni dei quali intratteneva anche rapporti personali intensi – la sua opera precedente, Asrael. aveva dimostrato piuttosto i segni della solida formazione musicale ricevuta in Germania (Monaco e Dresda) e della prossimità all’europeismo spiritualista della scapigliatura musicale italiana degli anni ’60 e ’70. Il libretto del Cristoforo Colombo, per parte sua, è uno dei primi stesi da Luigi Illica, noto per la sua successiva (difficile) collaborazione con Puccini: anche la gestazione del Colombo, in parte testimoniata da scambi epistolari, fu lunga e faticosa, fonte di continui dissapori, al punto che Illica in occasione della “prima” finì per ritirare il proprio nome dall’opuscolo stampato.

L’opera, basata essenzialmente sull’Historia de las Indias di Bartolomé de Las Casas, presentava originariamente in quattro atti e un epilogo i tasselli essenziali che la cultura popolare associa al mito colombiano. Nel primo atto (Salamanca, 1487) vediamo la folla in attesa per il responso del Concilio: una leggenda intonata da pellegrini provenzali induce il popolo a sperare nella scoperta di nuove terre, ma una demoniaca ballata del vilain Roldano Xiinenes, che descrive i mostruosi pericoli dell’occano, eccita la folla contro Colombo. Si annuncia il responso negativo del Concilio: dileggiato e quasi linciato dalla folla, il navigatore incontra la regina Isabella. che in un estatico duetto gli concede i mezzi per tentare l’impresa.
Il secondo atto (12 ottobre 1492) si svolge a bordo della Santa Maria: l’equipaggio dispera ormai di toccare terra o rivedere la patria, lo stesso Colombo dubita, e durante la funzione religiosa esplode un ammutinamento guidato da Roldano. Mentre Colombo sta per essere gettato a mare, si ode il grido “Terra, terra!”: esultanza generale.
Nel terzo atto (Xaragua, 1503) la rappresentazione delle ferocie perpetrate dagli spagnoli nei confronti degli Indios si intreccia con un plot amoroso fra un giovane ufficiale, spagnolo, di nome Guevara, e la principessa Iguamota, figlia della regina Anacoana, che ha a sua volta sedotto Roldano per meglio preparare il massacro degli invasori.
Nel quarto atto (ivi) Colombo ritorna per ristabilire la giustizia: la sua magnanimità morale giunge a conquistare anche Anacoana, ma l’arrivo di un messo reale porta alla sua destituzione e all’arresto. Mentre esplode la ferocia dei soldati spagnoli, gli Indiani si immolano in un rogo collettivo all’interno del proprio tempio.
Nell’epilogo (Medina del Campo, 1506) Colombo, vecchio e malato, tenta di ottenere un colloquio con la regina Isabella nella cripta dei re di Castiglia, ma apprende che ella è morta. Di fronte al crollo delle proprie speranze perde la ragione e muore, rievocando le proprie passate imprese (il che permette al compositore di passare in rassegna, come nella cosiddetta “marcia funebre di Sigfrido” del Crepuscolo degli Dèi, i principali motivi musicali associati all’intrigo negli atti precedenti).

Colombo-frontespizio_Ricordi

Il successo dell’opera fu notevole, e contribuì a stabilizzare l’autore nel rango dei principali compositori italiani: il Colombo, fra l’altro, doveva essere stimato nella cerchia di Verdi se Boito, nella lettera al Maestro del 16 marzo 1894, scriveva (a proposito di Fior d’alpe): “Franchetti, che ha navigato bene col Cristoforo Colombo, s’è affogato in un bicchier d’acqua ed ha naufragato”. L’opera tuttavia parve troppo lunga: iniziò così una sequenza di tagli e rimaneggiamenti che interessarono principalmente i due atti americani, terzo e quarto.

La musica della versione originale, testimoniata esclusivamente dal libretto pubblicato in occasione della “prima” genovese del 6 ottobre 1892, non ci è integralmente pervenuta; per la successiva rappresentazione del 26 dicembre alla Scala di Milano, infatti, oltre ad unta variante nel finale del quarto atto (il suicidio collettivo degli Indios fu sostituito con la ripresa dei loro lamenti funebri), Franchetti apportò all’opera numerosi tagli per circa cento pagine complessive di partitura. A questa versione scaligera corrispose dunque il primo spartito per canto e piano pubblicato da Ricordi.
Il 24 ottobre 1894, con Toscanini sul podio, venne presentata al Teatro Sociale di Treviso una versione in cui i due atti americani, mediante ulteriori tagli, erano fusi in uno solo, secondo un suggerimento che Luigi Mancinelli, direttore della rappresentazione genovese, aveva già avanzato nell’estate 1892. Fu pubblicato un nuovo spartito, che comunque prese ancora per base la versione in quattro atti, seppur ulteriormente abbreviata rispetto alla precedente: in appendice si trova il “raccordo” necessario per chi volesse unificare gli atti americani secondo la versione trevigiana. Franchetti, infatti, continuò in cuor suo a preferire la versione in quattro atti, sebbene sia stata quella in tre ad imporsi definitivamente e a tenere le scene per qualche decennio, prima di scomparire dal repertorio, ed infine di riaffacciarsi per alcune riprese moderne. Per un’ulteriore versione – tentativo estremo di salvare la partitura dall’oblio incombente rapprentata senza alcun successo a Roma, Teatro Costanzi, il 7 dicembre 1923, gli atti americani scomparvero del tutto: il compositore, in collaborazione con un anonimo librettista (probabilmente Arturo Rossato, dopo inutili trattative con Giovacchino Forzano), li sostituì con un atto nuovo che presenta – riutilizzando in buona parte la musica preesistente – il ritorno di Colombo a Palos, un corteo di Indios che sfilano sotto lo sguardo incuriosito degli spagnoli e l’arresto del navigatore.

Il Colombo, al pari dei contemporanei Medici di Leoncavallo (opera per molti aspetti simile, anche se musicalmente assai meno riuscita) sceglie per soggetto un tableau storico di ambientazione rinascimentale, centrato su una figura eroica che incarna spirito di ricerca e di libertà intellettuale sviluppati nell’umanesimo italiano. La classe dirigente della nuova Italia cercava ossessivamente, nei decenni successivi all’unificazione, di sviluppare il senso di un’identità nazionale – storicamente e politicamente problematica – ricercandone le radici nella tradizione intellettuale italiana, reinterpretata in senso marcatamente liberale, in particolare come affermazione dello spirito laico contro l’oscurantismo religioso. In effetti il Colombo, come i Medici, trasuda di violento anticlericalismo: la prima versione, quella genovese, suggellava questa prospettiva presentando lo sterminio degli Indios, alla fine del quarto atto, come parte di un terribile tableau di intolleranza religiosa:

(Attorno al tempio in fiamme passano torme di frati e di soldati salmodiando eniatici e fanatici)

FRATI E SOLDATI
Avvampa fuoco! Struggi l’empie imagini!
Divoratrice fiamma arli e purifica!
Noi sulle ceneri del fosco tempio
piantiam la croce ove sorgeva un idolo.

(Il tempio si sfascia. crolla spaventosarnente. […] Un frate domenicano., stringendo nella sinistra una spada e nella destra una croce, la pianta fra i ruderi dannanti, del tempio. Cristoforo Colombo, stretto da catene, si copre il viso all’orrore di quello spettacolo e piange).

Sebbene Franchetti (come d’altronde Leoncavallo) conti fra gli ammiratori e i conoscitori del dramma di Wagner (ma soprattutto delle sue opere romantiche degli anni quaranta, a loro volta fortemente “parigine” nell’impianto) il Colombo si inscrive piuttosto nella tardiva fortuna italiana del grand opéra parigino di ambientazione storica, che aveva costituito il tramite attraverso cui la cultura musicale della penisola sperava di sprovincializzarsi e di attingere un respiro europeo (in esso, già da qualche decennio, le avanguardie avevano colto la possibilità di trattare soggetti dalle superiori pretese di riflessione intellettuale, nonché di sperimentare nuovi assetti drammaturgici e tecniche compositive aggiornate). Intorno al 1890, tuttavia, il momento dell’opera-ballo – come la si chiamava in Italia pareva quasi esaurito, e la stessa dimensione spettacolare che ne costituiva un elemento centrale aveva perso di richiamo: proprio alla vigilia della prima di Cristoforo Colombo Verdi, che pure tanto aveva fatto per acquisire all’opera italiana le tecniche del grand opéra, si lasciava sfuggire un commento significativo: “Ah Franchetti ama la mise en scene spettacolosa? Diverso da tue che la detesto. Quello che ci vuole, e nulla più. Con queste grandi mise en scene si finisce a far sempre la stessa cosa… gran cassa… masse di gente… e addio Dramma e musica!! Divengono cose secondarie”.

In realtà, più che presentare – come nella tradizione del grand opéra – soggetti che sviluppino dialetticamente il contrasto tra dimensione privata e sfondo storico (generalmente distruttivo), qui il tableau storico, con i suoi addentellati ideologici, è la cosa più importante, vera e principale motivazione dello spettacolo. A dire il vero, nella sua concezione iniziale l’opera sembrava perseguire, l’ideale di un certo equilibrio fra l’icona storico-ideologica e lo sviluppo dei conflitti interpersonali, in particolare nel complesso nodo di relazioni che implicavano Colombo e la regina Anacoana (ovvero il passaggio da un’opposizione mortale ipocritamente dissimulata all’accettazione di un’utopia di umana giustizia e convivenza, che alla fine la storia si incarica di distruggere). I progressivi tagli operati, a cavallo fra terzo e quarto atto, dalle successive versioni dell’opera, oltre a ridimensionare l’intreccio amoroso fra Guevara e la principessa Iguamota, eliminano tutto ciò, facendo perdere spessore drammatico alla partitura. Se infatti il primo atto costituisce un efficace tableau storico sul cui sfondo si delineano la figura titanica di Colombo, il sinistro ghigno demoniaco di Roldano, la dimensione dell’utopia affiorante dal duetto con la regina Isabella; se il secondo, probabilmente il vertice dell’opera, scandaglia efficacemente lo stato d’amino dubbioso di Colombo stesso e del suo equipaggio (bellissimo, e assai avanzato nell’uso del linguaggio armonico, il coro di paura e dubbio “Ove ne spinge il vento”; molto suggestivi i passaggi orchestrali, misti a richiami corali lontani, che suggeriscono la spazialità e la solitudine delle immensità oceaniche): l’atto “americano”, spogliato dell’interesse dovuto alle dinamiche di confronto (oggi si direbbe di “incontro”) fra protagonisti europei e indigeni, resta affidato soprattutto all’aspetto esotico di cori, danze e lamentazioni degli Indios: materiale che, seppure non privo di interesse (anche per le sperimentazioni sonore tentate da Franchetti: negli Areytos l’ostinato d’accompagnamento è affidato agli archi tripartiti – arco, dorso, pizzicato – e i corni devono avere la campana chiusa in un sacco), non basta certo a reggere i] peso dell’incandescente problematica storica posta dal massacro dell'”altro” (e in effetti, pur senza trovare una soluzione migliore, la versione del 1922 prenderà atto del fallimento dell’atto americano, cassandolo del tutto).

I mezzi stilistici usati lasciano trasparire la pluralità dei punti di riferimento: Wagner appunto, la tradizione vocale italiana, il grand opéra. Al primo rinvia una pur semplice tecnica dei motivi identificanti, usata per i passaggi di conduzione dell’intreccio. Il tema che ricorre più spesso è quello, di carattere lirico, che fa la sua apparizione nel corso del duetto fra Isabella e Colombo come emblema della “Grande Idea”, della terra meravigliosa che attende di essere, scoperta e conquistata alla fede. Più che un motivo atto ad essere rielaborato come in Wagner, è un vero e proprio tema, ampio e sintatticamente concluso, sul quale – più o meno variato – verranno poi costruiti interi numeri chiusi o sezioni di numero (la perorazione corale che chiude, l’atto II: l’arioso di fratellanza intonato da Colombo nel quarto atto). Solo in un caso, estremamente efficace, esso viene utilizzato secondo le modalità di “commento” proprie del Leitmotiv wagneriano: le prime quattro battute risuonano, nell’orchestrazione soffocata di un pianissimo di ottoni. per contrappuntare la morte del vecchio indiano trucidato dagli spagnoli assetati d’oro, all’inizio del terzo atto (amara constatazione che la nobile impresa voluta da Colombo si è ridotta ad un vile e barbaro saccheggio).
Un altro motivo che Franchetti utilizza più volte, in modo generalmente tautologico. spesso incastonato nella melodia della Grande Idea, è quello associato personalmente alla figura di Colombo (lo si sente per la prima volta, poderoso, all’ingresso in scena del navigatore), variato, diviene un tema di marcia funebre nel bel preludio orchestrale all’Epilogo. Anche la frase iniziale della ballata di Roldano viene talvolta fatta risuonare come emblema delle sue sinistre macchinazioni. In complesso, nell’opera di Franchetti il gioco dei rinvii sembra obbedire più alla logica della citazione estesa, della reminiscenza, magari variata, che non a quella del Leitmotiv ad elaborazione motivico-semantica: l’influenza di Wagner si sente più in certi aspetti armonici e nel taglio di taluni motivi. Il livello “lirico”, riservato all’espressione intima dei personaggi, e in particolare al plot amoroso, aderisce invece ai modi della tipica cantabilità “italiana”, sulla base di una sintassi periodica tradizionale: nella corrispondenza con Illica durante il lavoro al Colombo Franchetti sostenne la necessità di lavorare su “passioni ben definite”, da idealizzare mediante la musica, e raccomandò al librettista, per i brani lirici, di non usare versi spezzati e non cambiare metro troppo spesso. Questa posizione appare sorprendentemente classicistica per chi viene talvolta definito come un “wagneriano” nostrano, ed è diametralmente opposta a quella tendenza di smembramento ed elasticizzazione della sintassi che perseguivano, sia pur in forme diverse, tanto il vecchio Verdi che l’esordiente Puccini.

Al grand opéra rinvia il terzo livello stilistico, quello che altrove avrebbe funto da sfondo, e qui invece predomina: la pittura d’ambiente, il color locale storicamente o etnicamente determinato. Tecnicamente ciò avviene attraverso la proliferazione di brani di musica di scena dal taglio estremamente caratteristico, grazie all’uso di un registro stilistico che rinvia a modi “d’epoca” (la Ballata dei Romei, le preghiere) oppure esotici (le varie musiche degli Indiani nel terz’atto). Come già si è detto, il processo graduale di abbreviazione degli atti americani finì per lasciare un’assoluta preminenza a questa dimensione esotica francamente un po’ naif.
Nell’insieme non si può negare che, a causa di questi procedimenti disparati (che rinviano, in fondo, a diverse opzioni drammaturgiche, ad una pluralità di modelli che non si lasciavano sintetizzare), l’opera soffra di una certa discontinuità. Tuttavia, molte pagine mantengono una forte vitalità musicale e drammatica, le sonorità orchestrali sono magistralmente condotte da cima a fondo, l’estetica del caratteristico e l’uso delle localizzazioni spaziali genera alcuni tableaux di grande suggestione. Nel repertorio della fin de siècle italiana – un repertorio programmaticamente “popolare” che ci appare oggi pesantemente condizionato dalle contingenze del mercato dell’intrattenimento – Cristoforo Colombo figura fra i pochi titoli il cui interesse non si esaurisce nella curiosità della riscoperta erudita.

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